Guido ha la sua età, ormai, e non esce quasi più di casa. L’unica cosa che continua a piacergli, fuori, è andare a funghi. È una sua passione fin da quando era un ragazzino, e tutto, qui, era diverso. Da qualche tempo hanno tracciato un sentiero, proprio dietro casa, e sono comparsi dei cartelli che raccontano delle “antiche rogge”. 
Questo è uno di quei posti dove ci si conosce tutti per nome. Nella luce gentile della prima serata un gruppo di anziani parlotta in fondo alla piazza. Dall’altra parte della strada, ai tavolini del bar, cominciano i primi giri di ombre.
Quando varchi la porta di Bike no limits la prima cosa che noti – prima della sfilza di biciclette allineate sulla sinistra, prima del bancone di mattoni chiari – è il profumo di ruota. O meglio, dei petrolchimici e dei solventi con cui sono fatte le ruote delle biciclette.
Alzi la mano chi – diciamo sopra i 25 anni – non è mai stato a fare il bagno al Mis. Quando faceva molto molto caldo, a Belluno, non c’era niente di meglio che rifugiarsi in Val del Mis – un luogo deserto, arcano – per tuffarsi uno dopo l’altro nei cadini, delle pozze naturali dove tuttora scorre cangiante l’acqua del torrente Brentòn.
A Belluno c’è un auditorium di pietra scavato da un torrente che non c’è più. L’Ardo ha rosicchiato questa gola goccia a goccia, poi si è stufato ed è scivolato 150 metri più in basso, dove continua a scorrere anche oggi. Il Bus del Buson è una forra sinuosa di 250 metri, poco lontano dalla località Case Bortot, ai piedi della Schiara.
In tutto il Feltrino erano diffusi un tempo i moronèr, i castagni: Cesiominore, una piccola frazione di Cesiomaggiore fatta di campi, stalle e splendidi cortivi, non era da meno. I ragazzini salivano i pendii sopra l’abitato – in un attimo dalla pianura dolce, all’inglese, ci si ritrova tra crode selvagge e silenziose – e facevano cadere dagli alberi i ricci con i moròni.
“Il Veneto ha delle zone umide straordinarie – spiega il dottore forestale Michele Cassol – come la laguna di Venezia, certamente. Eppure anche il lago di Busche, nel suo piccolo, è un’area interessante, perfetta per fare birdwatching. Si trova sulle rotte migratorie, per cui è facile osservare varie razze di uccelli, sia stanziali che migratori, dal gabbiano al cormorano, oltre a diversi tipi di aironi e anatre…
Mirko De Barba ha 34 anni e cento ettari di terreno. Di lavoro – e per passione – coltiva mais. Prima di buttarsi in agricoltura ha lavorato per anni nell’edilizia: “Negli anni Novanta si spingeva molto sull’edilizia, per cui ho fatto la scuola edile. Ma uno certe cose le ha nel dna. I miei nonni avevano prati, mucche, maiali. A 25 anni mi sono detto, provo. Piuttosto che arrivare a 40 con i rimpianti…”.
Renzo e Teresa hanno gestito un rifugio per anni, con i prodotti dei loro campi a Pez, in comune di Cesiomaggiore. Quando non erano su allo Scarpa, sotto il monte Agner, vivevano nella vecchia casa di campagna della Pedemontana. Due anni fa hanno deciso che di rifugio ne avevano abbastanza e che era tempo di un nuovo progetto: hanno buttato giù la vecchia casa e hanno costruito l’agriturismo Campo di Cielo.
Il papà di Mario e Bruno faceva il falegname. Costruiva ruote per carri in una stalla in paese, a Segusino. I due gemelli hanno bazzicato tra trucioli e attrezzi fin da bambini. Uno dei due, crescendo, ha continuato a lavorare con il legno, l’altro è andato a bottega in una tappezzeria, e ogni giorno si faceva pedalando la strada dal Mas su fino a Belluno.
Nel ’66 i gemelli Naldo si sono messi in proprio.
Davanti all’ingresso c’è una graziosa statuetta per terra, cinque paperette accoccolate una sull’altra, ferme di paura. Se ti avvicini ancora, a sorpresa si risvegliano e scappano via barcollanti. Benvenuti al Puner, “vendita pollame ruspante”. Grandi vetrate, balle di fieno e pannocchie decorative, un salone ampio e arioso: a prima vista, El Puner sembra tutto, tranne un allevamento di polli.
Sulla piana del Cansiglio la strada – che fino a poco prima si arrampicava involuta nel tremolio di ombre e luce dei faggi, tra gli abeti severi – si fa improvvisamente dritta come un fuso. La fascia degli alberi sopra i prati sembra averla disegnata un bambino, tanto è regolare.
L’orizzonte si amplia e il sole e il silenzio fanno sembrare vacanza anche un banale mercoledì: per quel signore che guida il caddy nel campo da golf per altro deserto è senz’altro domenica, in effetti.
Sulla piana del Cansiglio la strada – che fino a poco prima si arrampicava involuta nel tremolio di ombre e luce dei faggi, tra gli abeti severi – si fa improvvisamente dritta come un fuso. La fascia degli alberi sopra i prati sembra averla disegnata un bambino, tanto è regolare.
L’orizzonte si amplia e il sole e il silenzio fanno sembrare vacanza anche un banale mercoledì: per quel signore che guida il caddy nel campo da golf per altro deserto è senz’altro domenica, in effetti.
Se sei un bambino e vivi in provincia facile che il latte, per te, sia il Lattebusche. Quasi quel “busche” facesse parte del nome stesso del contenuto della tazza di ogni santa colazione. Solo negli anni, o la prima volta che passerai di lì in auto in direzione Feltre, scoprirai che Busche è un paese e che dunque qualcosa non torna. Lattebusche, già Latteria Sociale Cooperativa della Vallata Feltrino è da decenni una solidissima realtà locale. Che in questi decenni, puntuale, ha piazzato nel frigo e nella tavola dei bellunesi latte, yogurt, formaggio, gelato e tutto ciò che ha a che fare con il bianco sapore.
Chi lo sa che a Feltre c’è il Centro studi Buzzati, dove ogni anno decine di studenti, studiosi e professionisti vari si rifugiano per fare ricerca e ricerche sullo scrittore bellunese per eccellenza? Non tanti, probabilmente, e ancora meno sapranno dove si trova, perché il Centro studi Buzzati sono due stanzucce ricavate nel mezzanino di un antico freddo palazzo del centro storico.
La vecchia scuola elementare di Gron è stata chiusa negli anni Ottanta. La nuova scuola si è trasferita in centro a Sospirolo e le altalene di questa struttura compatta, bianco e pesca, sono rimaste inutilizzate per un bel po’.
Grazie a una serie di finanziamenti, il comune di Sospirolo sta ristrutturando l’edificio, che si trova nella sua frazione più popolata –  un po’ più di mille persone, quando ci passi però non lo diresti, perché di mattina, in un tranquillo mercoledì estivo, qui non vola una mosca.
Susanna mi lascia ad aspettare qualche minuto nel cortile, il tempo di togliersi gli stivaloni e la salopette blu. “Prego”, e mi fa entrare in casa. La cucina è piena di foto – la comunione, i pranzi di famiglia, la figlia – e dei suoi quadri, vedute di montagna, paesaggi innevati, molta natura. Sta per spiegare, non espongo mica, chi vuole sa dove chiederli, ma arriva l’addetto per il controllo del gas, la figlia è già in ritardo per un appuntamento, Susanna si scusa di nuovo e il signore del gas aspetta in cortile.
All’interno della porta del punto vendita si è formato uno strato tremolante di condensa: è mattina presto, fuori l’aria è frizzante e a entrare in latteria pare di passare a tutta un’altra latitudine. L’odore di latte e formaggi riempie tutti gli scaffali – a quest’ora ancora vuoti – e ogni angolo della stanzetta adiacente al laboratorio. A pensarci, le latterie sono uno degli ultimi luoghi frequentati dal pubblico che mantengono forte il loro odore caratteristico.
Lui è là, in alto come tutti i suoi simili. E lassù, con i suoi mattoni a erigerlo sentinella della valle, è da circa 1970 anni. Da quando, nel 46 dopo Cristo, fu costruito lungo il corso del torrente Terche, in cima a un colle, per non perdersi un solo viandante, milite o cavallo in transito sulla via Claudia Au-gusta Altinate. È il castello di Zumelle, in assoluto il castello meglio conservato di tutta la Valbelluna.
Quando chiedi indicazioni, c’è ancora gente per strada che ti manda di fronte alla chiesa, dove si trovava fino a qualche tempo fa. Da un anno La bottega del pane si è spostata dal centro di Pedavena. Non di molto: oggi si trova poco lontano dalla storica birreria, e ha tavolini per il caffè, alti sgabelli su cui leggere il giornale, profumo di forno e un grande laboratorio di panificazione a vista.
L’edificio in cui si trova il panificio di Marco Raveane è di un elegante grigio tortora, l’ufficio è spazioso e illuminato, bianco candido.
I Bellunesi hanno un legame forte con l’acqua, da sempre: oggi magari per molti è un legame inconsapevole, ma esiste. A sentire queste parole il professor Francesco Piero Franchi ha un guizzo, sorride, “questo concetto mi piace: consapevolezza”. Franchi è un esperto – tra l’altro – di storia locale. È anche un ottimo narratore.
É venerdì mattina presto, si respira un buon profumo di prezzemolo con cui una signora grembiule-rosso-e-cuffietta sta preparando hamburger farciti. Dietro il banco si muovono veloci quattro commessi, dietro una grande vetrata lavorano a vista tre macellai, tra i tranci di carne appesi e il biancore dei tavoli. Il negozio è già affollato, nonostante l’orario: un anziano vestito come se fosse ancora inverno ordina polpettone e roastbeef per il pranzo con i nipoti – probabilmente quel bigliettino tutto stropicciato gliel’ha scritto la moglie, che lo aspetta a casa mentre impasta la torta.
A una prima occhiata, decisamente verde, verrebbe da rivolgersi a lei – sterminata e silenziosa – all’imperfetto. La valle di Seren da lì, attaccata alle “cotole” del Montegrappa, non si è mai mossa. Da lì però si sono mossi in tanti, molti. Quasi tutti. Si sono mossi e se ne sono andati gli abitanti. La gente di Seren, che dalla seconda metà dll’800 in poi, tra tre guerre (mondiale, mondiale e fredda) e nuovi cicli, hanno lasciato i tanti paesi arroccati tra abeti e faggi e non sono più tornati. Erano in duemila, sono in quaranta.
Gabriele Da Rold ha una settantina di mucche, una gelateria e tre bambini. Abita a Tisoi, poco sopra il paese e poco distante dalla latteria a cui conferisce il latte prodotto dalle sue bestie. La cooperativa di Tisoi ha oggi tre conferitori: Gabriele, il fratello Orazio e il padre Guido. Quando Guido si è unito alla cooperativa, i soci erano oltre duecento. Lui aveva una ventina di mucche che gli davano di che vivere: “Ci guadagnava anche qualcosa”, ricorda Gabriele. Ma oggi è tutto cambiato: “Se non diversifichi, non vivi mica”.
“Lavoravo a Padova, e mi sono stufato. Sono passato attraverso le stagioni in rifugio, lontano da casa, e alla fine sono arrivato qui a Cergnai”: Luca, di Feltre, gestisce da qualche anno l’ostello Altanon, una bella casona di pietra chiara nascosta tra gli alberi sul torrente Veses, poco sopra Santa Giustina. L’ostello è infossato nel bosco, di fianco alla vecchia centralina idroelettrica (recuperata, e di nuovo in funzione), e tutto quello che si sente è il rumore dell’acqua e qualche suono di uccelli, l’abbaiare raro del cane.
È una domenica quasi di primavera, il cielo è terso, blu, il sole splende e nei prati cominciano a far capolino bucaneve e anemoni. Elena e Claudio partono da Fiammoi a piedi, insieme alle nipoti. Fino a villa Montalban c’è da stare attenti – bambine, sul marciapiede! – ma dalla villa in poi liberi tutti, il nuovo sentiero attraversa la ferrovia e poi si srotola tra prati e bosco, parallelo alla statale. Appena prima della villa secentesca, si levano le urla di incitazione dei giocatori di rugby.
In Alpago c’è un po’ tutto quello che serve: c’è il lago, c’è il bosco, c’è la montagna. Nelle acque di Santa Croce si rispecchiano le crode pallide della corona di cime che per i bellunesi è l’immagine dei bentornato a casa dopo le vacanze. Tra lago e monti, la conca dell’Alpago è un lungo elenco di prati, paesi al sole, frinire di grilli, ponti romani, ristoranti, bramiti di cervi, paracadutisti, stellati mozzafiato, sentieri.
Scaldare costa. In montagna è cosa nota. Nota e centrale. Inverni lunghi e rigidi, la primavera che somiglia troppo alla stagione che l’ha preceduta e l’autunno che gioca ad anticipare chi la segue. Di nuovo lui, l’inverno. Il costo del riscaldamento è una spesa centrale per ogni singola famiglia, ca-solare, abitazione, lo è per le aziende e lo è pure, se non soprattutto, per un paese intero e chi lo amministra. Perché il pubblico è di tutti e nei luoghi di tutti al caldo deve pensare il Comune.
Fanno probabilmente parte del paesaggio famigliare, tanto che spesso non ci si fa caso, ma gli ex-voto che arricchiscono alcune vecchie chiesette sono uno dei piccoli tesori del Bellunese. Si tratta di scenette dipinte da mani spesso incerte, comunque un po’ naïf, con storie accennate di tragedie sfiorate e devoti ringraziamenti al santo di turno: il naufragio dello zattiere lungo la Piave, l’incontro con l’orso, l’incidente con il trattore… 
Non c’è dubbio, l’impronta inconfondibile di Venezia è stampata su quelle facciate: l’infallibilità di gusto, lo chic, la grazia, la superiore eleganza, la “maniera”, anche. Pure se i modi architettonici sono sviati o alterati, c’è l’identico ritmo, la medesima aspirazione di serenità e di letizia, il segno di un’uguale concezione di vita.
Ma dietro non c’è il libero cielo della pianura… né vi si aprono dinanzi placide distese di prati e giardini, né all’orizzonte si perdono geometriche orizzontali prospettive dei carpini o bossi, schierati come guardie d’onore il giorno dell’incoronazione.
Fino a pochi anni fa qui, al posto della Botega de la bira, c’era un vivaio, che ora si è ingrandito e spostato poco lontano dal centro di Arsiè. Prima ancora, questa struttura bassa e larga, dalle eleganti porte ad arco, è stata magazzino edile, scuola per muratori, glorioso bar “alle Rose”. Oggi è un piccolo locale di legno chiaro, comodi sgabelli alti e porte verde acceso. Bruschette come-vuoi-tu e birra, naturalmente: dietro al bancone campeggiano nel muro a scacchi quattro botti di PaILOT beer, la rossa, la nera, la weizen e l’originale – sempre la stessa dal ’94.
Per una settimana intera, d’estate, Francesco e Francesca hanno pelato cipolle e pressato pomodori di fronte a casa, in un gazebo montato per l’occasione. Settanta chili di cipolle tropea per sei quintali di conserva: l’odore di buono ha aleggiato tra le case del borgo di Grum per diversi giorni, anche con la conserva ormai imbottigliata in centinaia di vasi e vasetti. Francesco e Francesca sono due degli ultimi abitanti di questo villaggio che sarebbe la location perfetta per un film di Ermanno Olmi.